All’interno dell’approccio sostenibile, che sia di tipo ambientale, sociale o finanziario, ci sono varie strade percorribili. Una di queste è quella della circolarità. Il concetto di circular economy o economia circolare, è stato definito a livello europeo come quel modello economico in cui “il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse è mantenuto quanto più a lungo possibile e la produzione di rifiuti è ridotta al minimo” (Comunicazione della Commissione Europea n. 614/2015 “L’anello mancante – Piano d’azione dell’Unione europea per l’economia circolare”).
Si tratta quindi di un approccio che si colloca in netta contrapposizione con il concetto di consumismo di tipo usa-e-getta, che invece promuove concetti quali riutilizzo e longevità dei prodotti o servizi. Vale la pena focalizzarsi su questo aspetto della sostenibilità perché, se è vero che la sensibilità dei consumatori, del mondo finanziario e delle istituzioni è alta sui temi della sostenibilità, questo non significa che principi, concetti, specifiche siano chiari a tutti. In questo senso, è fondamentale il ruolo della comunicazione poiché impatta sulla percezione che i differenti stakeholders hanno rispetto all’attività di un’azienda o un’istituzione finanziaria che decide di intraprendere azioni strategiche riconducibili alla circular economy.
COSA VUOL DIRE PRODOTTO CIRCOLARE? Definizione e percezione del consumatore non sono allineate
La circular economy si concentra sul mantenimento del valore del prodotto. Questo significa che un prodotto circolare dovrebbe possedere almeno queste sei caratteristiche:
- selezione dei materiali: prodotti realizzati in materiali riciclati o materie prime secondarie (MPS), a loro volta facilmente riciclabili;
- non necessariamente bio-based: la preferenza dei materiali biologici di per sé non assicura un prodotto più circolare;
- design modulare: prodotti realizzati con componenti standard che favoriscono la riparabilità e la rimessa a nuovo nonché la riciclabilità del prodotto e dei suoi componenti;
- prodotti riutilizzabili, rigenerati, e riciclabili: che seguono la gerarchia dei rifiuti;
- durabilità: prodotti progettati per durare nel tempo (product life-extension);
- condivisione: sharing economy volta a massimizzare l’utilizzo nel tempo del prodotto.
Come noto, una delle principali problematiche dell’approccio sostenibile è che non esiste un set di regole definite e applicabili su larga scala. Le sei caratteristiche qui riportate sono elaborate del Report commissionato dal Conai all’Istituto Superiore Sant’Anna, pubblicato questo ottobre, a partire da una lettura comparata di tre fra le più autorevoli fonti istituzionali in materia: una politica (UE) una del settore produttivo (British Standard) e una ONG (Ellen McArthur Foundation). Questa assenza di fonti certe, in parte comprensibile vista la novità della materia e i differenti approcci possibili, rende evidente come il ruolo della comunicazione sia essenziale già in questa primissima fase, quella della definizione dei concetti.
Infatti, se in teoria un prodotto circolare è quello che risponde alle sei caratteristiche di cui sopra, la percezione che il consumatore ha di prodotto circolare non è del tutto allineata, come ha rilevato il Report. Alla domanda “quali caratteristiche dovrebbe avere un prodotto circolare”, il campione indica come prima e principale caratteristica che sia riciclabile (51%), poi riutilizzabile (47%), poi fatto con materie/risorse rinnovabili (31%). Le caratteristiche di “durata più estesa della media” (12,8%), “estesa garanzia” (7,4%) “di seconda mano” (3,6%), “per cui vengono forniti pezzi di ricambio” (9,3%) che sono espressione di durabilità, condivisione e design modulare, non sono percepite dal consumatore come caratteristiche di un prodotto circolare.
È vero che l’attenzione delle persone alla sostenibilità in generale è elevata più che mai: il report Conai rileva infatti che quasi la metà del campione intervistato (47%) risulta fortemente preoccupato per l’ambiente e il 39% preoccupato. Ma, sollecitata dai vari Fridays for Futures, la consapevolezza che ne ha il consumatore medio può risultare superficiale e “di pancia”. Questo, per le aziende che sono impegnate attivamente nella sostenibilità e nella circular economy, può rappresentare una difficoltà al momento del dialogo e della comunicazione con i propri stakeholders.
Inoltre, c’è da considerare che le scelte d’acquisto sono ora più che mai legate alla capacità di un brand di ispirare fiducia. Quindi è fondamentale che la comunicazione, quale strumento che mantiene e stringe la relazione fra azienda, brand e stakeholders, si ponga al servizio di questi nuovi concetti, raccontandoli nel modo più semplice e preciso possibile, affinché i brand impegnati possano effettivamente averne un ritorno dal mercato.
IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE: le differenti sfide del racconto di prodotti green e prodotti circolari
Ancora dal Report Conai, riportiamo uno schema che illustra la differenza fra prodotti green, circolari e green circolari dove vengono riportati anche gli strumenti di comunicazione necessari affinché queste caratteristiche vengano riconosciute dal mercato.
Ad una prima analisi, appare evidente come gli strumenti di comunicazione che misurano l’impatto ambientale hanno un elevato grado di tecnicismo. Quelli relativi alla circolarità meno, poiché non raccontano tanto le caratteristiche del prodotto, bensì la sua vita. Per questo, la più efficace formula di comunicazione della circolarità del prodotto può essere proprio lo storytelling. Un prodotto che passa da un consumatore ad un altro ricco di storia, riassemblato magari, oppure acquistato in un circuito di second hand.
Invece, meno emozionante e coinvolgente può apparire la comunicazione di prodotti green. In questo caso, lo strumento di comunicazione per eccellenza è spesso un label, che il consumatore vede stampato sul packaging del prodotto e ripreso magari sui canali di comunicazione del brand. Un “bollino” per il quale l’azienda ha faticato, ha apportato magari modifiche ai suoi processi di produzione o alle politiche di approvvigionamento, a processi aziendali e abitudini spesso consolidate, ha speso tempo ed energie.
Certo, ci sono i bilanci di sostenibilità che possono raccontare questo e molto altro, in verità. Sono degli strumenti di comunicazione fondamentali nella relazione con stakeholder istituzionali, con la stampa, ma meno efficaci nella comunicazione con i propri consumatori.
Attualmente, come rileva il report Conai, gli “informati” e i “sapientoni” delle etichette sono non più del 28%. E la confusione, purtroppo, è diffusa.
Rendere accessibili le certificazioni e, più in generale, i contenuti di stampo tecnico è una grossa sfida, un’impresa difficile perché spesso si tratta di contenuti molto specifici che richiedono anche una preparazione di base rispetto alle caratteristiche del settore di riferimento e alle sue regole. Ma si tratta di uno sforzo necessario poiché impatta sul fenomeno dello scetticismo e sulla percezione di greenwashing, entrambi deleteri per l’awareness della sostenibilità di un brand o un’azienda e dunque per il mantenimento della fiducia con gli stakeholders di riferimento.
GREENWASHING E SCETTICISMO: quali strategie per una efficace di comunicazione della sostenibilità?
È innegabile, la sostenibilità e tutte le sue declinazioni sono al momento un trending topic. Proprio in virtù del fatto che i consumatori si dichiarano più propensi ad acquisti green, anche se più costosi, sono molte le realtà che hanno scelto sostenibilità, green economy, circular economy quali cavalli di battaglia delle proprie strategie di comunicazione, non solo di prodotto ma anche di comunicazione istituzionale. Sta funzionando?
Scetticismo e comunicazione di prodotto
Il report Conai indaga sul fenomeno dello scetticismo inteso quale predisposizione a dubitare delle asserzioni che attestano il basso impatto ambientale di un prodotto. Nel complesso, possiamo dire che la sostenibilità veicolata attraverso la comunicazione di prodotto è percepita come attendibile. Infatti, il 45% del campione non è scettico, il 32% è neutrale, mentre gli scettici rappresentano solo il 23% del campione. Possiamo quindi affermare che le indicazioni relative all’impatto ambientale riportate sulla confezione o sull’etichetta (risparmio di plastica nei refill dei detersivi, per esempio), sono una forma di comunicazione e posizionamento di prodotto efficace in quanto accolta in modo proattivo dal consumatore.
Greenwashing e comunicazione istituzionale
Stessa cosa non è possibile dire se spostiamo il focus dalle informazioni lette su un singolo prodotto alla percezione della condotta generale delle aziende nel comunicare le performance ambientali dei propri prodotti. In questo caso, lo scetticismo prende il sopravvento ed emerge chiaramente come la maggioranza dei consumatori pensa che le aziende compiano pratiche di greenwashing. Il 51% ritiene che la comunicazione delle performances ambientali da parte delle aziende non sia limpida e accessibile.
In particolare, si lamenta il fatto che le aziende forniscano informazioni ambientali vaghe o apparentemente non verificabili e, soprattutto, che la maggior parte delle aziende omette di comunicare o nasconde importanti informazioni riguardanti le caratteristiche ambientali dei propri prodotti. Questo significa che i comportamenti negativi agli occhi dei consumatori riguardano l’aspetto corporate e istituzionale del comunicare la sostenibilità. Elaborare la strategia di comunicazione più corretta, avuto riguardo delle specificità dell’azienda e del suo avanzamento nel percorso verso la sostenibilità, è fondamentale per mantenere alta la fiducia del proprio pubblico di riferimento. Un approccio integrato, che affianchi comunicazione e strategia di business ESG è preferibile perché avvicina e integra i due momenti fondamentali dell’agire e del raccontare che, insieme, possono costruire un domani migliore per il nostro pianeta.
categorie: opinioni e attualità