L’eterna antitesi fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere occupa l’uomo e le sue riflessioni fin dagli albori della civiltà. Non che sia di facile soluzione, anzi. Già avevamo in questa rubrica citato la riflessione del Conte di Rochester, fra i più famosi libertini inglesi del 700 che, incarnato da un (sempre) superbo Johnny Deep, si rammaricava del fatto che nel mondo reale azione ed effetto non siano per nulla consequenziali. Senza per questo abbandonare ogni speranza e lasciarsi andare al cinismo più sfrenato come Rochester, resta il fatto che la consequenzialità e la logica non fanno davvero parte del ciò che è quanto piuttosto del ciò che dovrebbe essere.
Senza abbandonare ogni speranza. Perché, diciamocelo, abbandonarla equivarrebbe a condannarsi a vivere in un mondo che sa più di inferno dantesco che di luogo in cui impegnarsi a costruire un’esistenza vagamente felice. Resta il fatto che in questa antitesi siamo immersi e, chi più chi meno, tutti viviamo l’esasperante impotenza di vedere che ciò che è non è ciò che dovrebbe essere.
Diamo adesso a “ciò che dovrebbe essere” e “ciò che è” due nomi differenti: teoria e pratica. Ecco, penso siamo d’accordo sul fatto che teoria e pratica hanno una relazione complicata. Ancora più complicato però è il fatto che noi nella pratica siamo immersi mentre la teoria non è che il percorso ideale da compiere, solitamente più faticoso e complicato di quanto, in pratica, servirebbe per raggiungere un dato risultato. Ma allora, che cosa ci impedisce di essere, tutti, dei Rochester? Al di là del morire di sifilide, che può in effetti essere una prospettiva scoraggiante, ciò che in ognuno di noi tiene viva la relazione fra teoria e pratica è l’atto di credere in un determinato “ciò che dovrebbe essere”.
Tanto crediamo in “ciò che dovrebbe essere”, che siamo stati disposti a rinunciare ad una parte delle nostre libertà e affidarci (radice di affidarci è fiducia) a qualcosa di più grande in grado di determinare i nostri comportamenti. Lo Stato, in ultima analisi, non è che il nostro anello di congiunzione fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.
Ma qual è il nostro “ciò che dovrebbe essere” verso il quale lo Stato dovrebbe guidarci, facilitarci? A vederlo sembra solo un elenco striminzito di fantasiose teorie che poco hanno a che vedere con la realtà che ognuno di noi vive. Eppure, per mettere a punto quella lista della spesa ci è voluto un anno e mezzo, sono intervenute 550 persone, ognuna con la propria visione teorica. Così, nasceva la Costituzione, il nostro breviario per un’esistenza felice. Eccoci al punto. Forse l’argomentazione per giungervi è stata tortuosa, ma necessaria per dimostrare qual è il peso specifico di questa Carta che spesso si ritrova al centro di dibattito. Un “ciò che dovrebbe essere” che pone al centro proprio la persona e la sua realizzazione, valore alla base di tutto l’universo normativo e giurisprudenziale italiano. Da questa prospettiva, sembra così ovvio che se “ciò che è” non rispecchia “ciò che dovrebbe essere”, è sul primo che bisognerebbe concentrarsi. Quanto sarebbe paradossale se nel calcio, per segnare meglio, si eliminasse la regola del fuori gioco? O se il re negli scacchi all’improvviso potesse muoversi ad L? Certo, le regole non sono immutabili ed è giusto che cambino come cambia e si evolve la cultura e la società. Ma attenzione, perché se può anche essere che ti piace vincere facile, la ludopatia non è proprio “ciò che dovrebbe essere”. Neanche un po’.
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categorie: opinioni e attualità